Works > Vanishing Point
Di fronte a un viale alberato vediamo gli oggetti davanti a noi farsi più piccoli all’aumentare della distanza, fino a convergere in un punto dell’orizzonte, che prende il nome di punto di fuga. Il sistema di prospettiva scientifica basato su questo tipo di percezione compare intorno al 1405, quando Brunelleschi teorizza per primo la prospettiva a punto di fuga centrale, elemento che caratterizza le rappresentazioni artistiche del Rinascimento fiorentino e italiano in generale. Avvalendosi della geometria euclidea si mette a punto un sistema che consenta di restituire la scena raffigurata riducendo artificialmente su un piano bidimensionale un’esperienza visiva tridimensionale. Questa esigenza risponde alla volontà dell’uomo rinascimentale di conoscere e controllare la natura attraverso la sua astrazione. Come riprova delle proprie capacità di riprodurre il mondo naturale in modo realistico l’artista dell’epoca si avvaleva spesso di uno specchio, ausilio che Leonardo consigliava di portare sempre con sé, come strumento di confronto tra l’opera e la realtà presa in esame.
Il Claude mirror è uno specchio convesso con la superficie nera, spesso di dimensioni maneggevoli. Il suo nome deriva da quello di Claude Lorrain, pittore francese del Seicento, molto attivo in Italia, soprattutto a Roma e a Firenze, e considerato il maggior rappresentante del genere del paesaggio ideale. Questi specchi erano usati dai pittori, viaggiatori e disegnatori di paesaggi tra fine Settecento e inizio Ottocento. L’osservatore, volgendo la schiena al panorama, scorge il paesaggio riflesso sulla superficie dello specchio; la forma convessa e oscurata del vetro riproduce un’immagine distorta, con un angolo più ampio rispetto a quello dell’occhio umano, i colori sono desaturati e i dettagli meno definiti, creando così un effetto di parificazione della forma e della linea. Il Claude mirror conserte quindi di inquadrare facilmente una grande porzione di realtà e rifletterla concentrata in un piccolo spazio, senza perdere il rapporto con le proporzioni originali.
Lo specchio nero è un oggetto ambiguo, ancor più carico di significati simbolici che di valenze pratiche. Attira a sé l’attenzione di chi guarda, rappresentando al contempo una sorta di punto cieco, una pausa per gli occhi che si riposano sulla superficie scura evitando, così, la luce intensa, potenzialmente fino a perdersi. Il Claude mirror, al contrario dello specchio ottimo giudice di Leon Battista Alberti, o di Leonardo, risponde alla volontà dell’uomo romantico di cullarsi di fronte a un pittoresco che è spesso frutto di una drammatizzazione umana del mondo naturale, di un occhio che procede alla ricerca di amenità da riprodurre e collezionare, per il piacere della propria mente, come teste di cervi e di leoni.
Il Claude mirror e il paesaggio in prospettiva che presento non sono qui accostati come elementi sganciati tra loro e rappresentativi di due sistemi diversi di intendere la restituzione dello spazio, bensì come strumenti per un’esplorazione empirica, alla ricerca di un luogo dove i nostri occhi non possono arrivare.
La scelta di eludere una visione diretta in favore di una indiretta — che consente di rimirare il paesaggio riflesso dando fisicamente le spalle a ciò che guardiamo idealmente — fa pensare a un elaborato artificio che porta all’astrazione della natura. Lo specchio, come la rappresentazione, diventa così, da surplus della visione, una prostesi, qualcosa che si sostituisce a essa.
Forse non c’è un luogo in cui vorremmo essere, ma un luogo che desideriamo immaginare.